lunedì 5 agosto 2013

IL SEGRETO DI NETTUNO

Il vento soffiava forte, arrivava da Nord, lo sapeva perché era freddo e tagliente come una lama affilata. Il mare era in tempesta, grigio scuro misto al bianco della spuma delle onde che sbattevano violentemente sulla scogliera. Il cielo era cupo per via  di gigantesche nuvole nere che si affacciavano minacciose all’orizzonte; stava arrivando una tempesta e si poteva dedurre anche da quel forte odore di pioggia mista a terra inaridita dalla siccità estiva. Il castello era arroccato sulla scogliera, intagliato in un unico blocco di pietra circolare, era una torre a picco sul mare. Si trovava sul limitare di una ripida scogliera in una terra denominata “DE FINIBUS TERRAE”, poiché quella era la terra ultima oltre la quale c’era solo il blu del mare: non c’era vegetazione lì intorno eccetto che per un bosco di pini marittimi a ridosso di quello che, in passato, era il più importante santuario di Minerva della zona ma da secoli era un importante santuario nel quale risiedevano dei monaci.
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Navigare con il mare in quelle condizioni era sconsigliato, ma lei in cima a quella torre non aspettava null’altro se non vedere vele bianche spiegate all’orizzonte e da quell’altezza poi c'era un'ottima vista su tutto lo spazio circostante. 
Aveva lunghi e folti capelli neri che svolazzavano selvaggi in preda al forte vento lo sguardo intenso di occhi verdi smeraldo incastonati come gemme su di un viso dalla pelle, le labbra sottili di un rosa pallido.  Indossava un lungo abito nero dalla scollatura arrotondata, nella mano stringeva qualcosa: un oggetto non troppo grande, lo stringeva il più possibile quasi a non volerlo perdere… 
Lo sguardo era fisso nel vuoto, concentrato, come ad attendere qualcosa o qualcuno: la severità del suo viso tradiva l’angoscia che premeva il suo animo.
Tum … tum… tum… un suono secco, ritmico che arrivava da qualche parte del castello e quella melodia che non cessava mai di echeggiare per tutte le stanze, non poteva tollerare oltre se la luce non fosse apparsa all’orizzonte entro la notte, non avrebbe esitato più, in un modo o nell’altro quel tormento avrebbe dovuto finire.
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Il mare era in tempesta e non c’era luce a guidarlo verso casa, le forze lo stavano abbandonando sempre di più. Doveva farcela ad ogni costo, il suo futuro e la vita di colei che amava dipendevano da quel viaggio; era stato ai confini del mare conosciuto per recuperare quel tesoro e ora che lo aveva con sé, doveva soltanto riportarlo a casa.
Mentre governava quella sua piccola imbarcazione, non faceva altro che pensare a lei e al loro primo incontro e di come tutta quella strana, assurda e terribile storia aveva avuto origine.
Lui non conosceva le sue origini, i primi ricordi della sua infanzia risalivano all’età di otto anni quando in una notte di tempesta come quella, vagando senza memoria alcuna per un bosco di pini marittimi arrivò in cima a una collina a strapiombo sul mare: c’era una chiesetta lì, precisamente un santuario dal quale si poteva vedere l’intero villaggio.
Il nome di quella cittadina di mare era Leukòs, si trovava in basso rispetto alla scogliera, formava un’insenatura rocciosa protetta proprio dalle due sporgenze, dette punte, una era quella sulla quale si trovava il santuario e l’altra invece richiamava la forma di un drago addormentato sull’acqua lì sopra, si ergeva un castello. Il villaggio era composto di poche piccole case, squadrate, dal tetto basso e bianco; al centro del paese c’era una chiesetta fatta di mattoni di tufo, molto semplice e dal campanile col tetto in rame.
Non sapeva da dove arrivasse, non ricordava in sostanza nulla e i frati, vedendo quel giovane ragazzo indifeso, infreddolito e infradiciato fin dentro le ossa lo accolsero nel loro piccolo monastero mandando immediatamente a chiamare il re. Fu in quella notte che loro due s’incontrarono per la prima volta e nonostante la giovane età (erano poco più che bambini) s’innamorarono a prima vista, quasi fosse stata la volontà del Destino a farli incontrare. Lei era la creatura più bella che avesse mai visto, aveva due grandi occhi color verde smeraldo, capelli neri acconciati dai migliori pettinatori del regno tra boccoli e gioielli; la pelle di porcellana rivestita negli abiti più sontuosi ed eleganti; le sue mani erano avvolte in guanti a mezze dita di pizzo nero aggrappate al forte braccio del re suo padre.
Sorrise appena lo vide, era il sorriso più dolce e caloroso che avesse mai visto, il suo viso era angelico e oltre ai grandi occhi verdi era caratterizzato da dettagli che lo rendevano perfetto: gli zigomi erano alti, le labbra sottili e rosate. Col tempo imparò che quel gesto, lì per lì in apparenza spontaneo in realtà era un riflesso incondizionato del suo carattere, sorrideva sì, ma come a voler mettere a proprio agio il proprio interlocutore o chiunque avesse di fronte: dolce e statuaria allo stesso tempo come doveva essere la figlia primogenita (e unica) di un re.


Il re notò l’immediato interesse della figlia (per la quale nutriva un amore incondizionato) per quel giovane trovatello senza indugiare decise di accoglierlo nella sua casa sotto la sua ala prorettrice dandogli il nome di Damian.
Da quel giorno la sua vita prese una svolta all’insegna della felicità, furono i migliori anni della sua vita e non sospettava minimamente ciò che di la poco sarebbe accaduto e di come a un certo punto senza che entrambi lo volessero iniziò quella strana e tremenda avventura.
Era stato educato come un principe, ma allo stesso tempo aveva legato con i pescatori del luogo che gli avevano insegnato tutto del mare e dei venti e delle storie che raccontavano le origini del luogo in cui si trovava: leggende per lo più, una di queste raccontava la storia di due innamorati separati dalla gelosia di una strega, trasformati nelle due punte separate dal mare… costretti a guardarsi per sempre senza poter stare insieme. 
Col tempo crebbe anche il sentimento che li legava, il loro amore era diventato cosi forte che non appena entrambi compirono diciotto anni si presentarono al cospetto del re per chiedere il suo permesso di sposarsi. Il re padre e la regina madre colmi di gioia accolsero la lieta notizia e disposero che le nozze si sarebbero svolte da lì a un mese: quello era il giorno atteso da tutti e la città festeggiò tutta la notte in onore del principe Damian e della principessa Amelia.
La festa per il loro fidanzamento fu un momento magico oltre ai festeggiamenti sulla terra ferma ci fu anche una sorta di rituale di buon augurio in mare, chiunque avesse un’imbarcazione salpò dal porto e a pochi metri dalla costa si disposero intorno alla nave reale, allo scoccare della mezzanotte furono liberate in mare e in cielo delle piccole luci. Il fuoco, l’acqua, l’aria e la terra tutti gli elementi erano utilizzati come a voler cercare un buon augurio per la giovane coppia.
Di lì a breve si sarebbero celebrate le nozze; non poteva immaginare che tutto ciò che aveva sempre sognato stava per essergli portato via per sempre.
Nella stessa notte della festa il cielo si oscurò e nuvole gelide arrivarono dal nord, il mare da tranquillo diventò un moto unico di onde violente che sbattevano sulle rocce, persino le acque del porticciolo erano agitate: in pochi attimi si era scatenato il caos, gli animali erano inquieti e dalle stalle del castello erano scappati alcuni cavalli che per la paura erano corsi verso la collina per poi precipitare rovinosamente giù dalla scarpata, erano scesi tutti in strada per mettere a riparo le barche e assicurarsi che i magazzini restassero in piedi.
Dopo la tempesta il tempo non sembrava assestarsi e il sole era diventato un pallido ricordo, assurdo per una città il cui nome significava “luce”: non si era incupito solo il cielo, anche il mare era sempre grigio e spento e lo stesso re sembrava invecchiato di colpo, come se d’un tratto gli fosse stata portata via la vita. Era stato costretto a letto e la regina madre afflitta dal dolore dell’impotenza nell’aiutare il marito stava seduta al suo capezzale disperata, tenendogli stretta la mano e lo sguardo fisso nel vuoto: nessuno sapeva spiegarsi la causa dell’improvvisa malattia del re e nel villaggio si piangeva per quella che sembrava la sua morte imminente e si pregava per la salvezza della sua anima.
Il regno non poteva restare senza una guida ferma e decisa, l’estate (nonostante il tempo) era alle porte e bisognava iniziare i preparativi per l’inverno: il matrimonio doveva essere anticipato. Fu un matrimonio triste e silenzioso, di certo non com’era stato programmato e ancor più triste fu ciò che avvenne durante il banchetto.
Una donna, molto alta e magra in modo malsano si presentò dal nulla, avvolta nella nebbia: aveva lunghissimi capelli neri, che incorniciavano un viso smunto e dal colore olivastro; gli occhi erano così azzurri da sembrare bianchi. Aveva lunghe braccia coperte da una veste color ghiaccio che lasciava scoperte le mani, il collo e la punta dei piedi: era la strega del Nord.
Amelia scattò in piedi e urlò: “Come osate presentarvi in questo regno senza invito e senza consenso?! Tornatevene da dove siete venuta!”  la strega la guardò fisso negli occhi, sorrise in modo malevolo e senza proferir parola si diresse verso il trono del re padre prese la corona ivi appoggiata se la pose in capo sedendosi: “Da questo momento il regno mi appartiene e voi siete tutti miei schiavi!”.
Damian era saltato oltre il tavolo sfoderando la spada, insieme a lui le guardie ma la strega rise e questa volta di una risata malvagia, alzò le braccia e in pochi attimi le guardie furono scaraventate lontano e trasformati in fantocci ai suoi ordini; il principe invece aveva i piedi come piantati a terra, non poteva muoversi, fu allora che la strega parlò: “Portate la principessa Amelia in cima alla torre e lasciatemi qui il trovatello”.
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I soldati ubbidirono lasciando soli Damian e la strega: “Mi avete chiamato trovatello… voi sapete? Come?” “Sono la strega del Nord e tutto so, ma sinceramente di te m’interessa poco, HO IMPIEGATO PIU’ DI CENTO ANNI PER OTTENERE TUTTO CIO’ CHE FINALMENTE POSSEDIO, ma non è ancora finita e se ci tieni a rivedere la tua bella sposina dovrai svolgere un lavoro per me”. Il principe la guardava con odio ma la strega incurante continuò: “Lasciate stare i vostri piani e le vostre strampalate idee; le guardie del palazzo sono ai miei ordini già da tempo oramai, il re è finalmente innocuo e la regina è inerme, non c’è nessun altro che possa aiutarti. Vedi giovane trovatello fortunato io ci ho messo davvero tanto ad arrivare dove sono eppure ho commesso un errore o meglio non avevo preso le dovute considerazioni… Devi partire questa notte, andare al centro di ogni cosa e portarmi la cassa che vi troverai: non aprirla, non curiosare, portamela ed io, se il lavoro sarà svolto come si deve, libererò la tua bella, il re e il suo stupido regno, tanto sarà distrutto comunque” “E allora perché aiutarvi? Oh ma non te lo sto chiedendo, te lo sto ordinando e la tua ricompensa sarà rivedere quella insulsa della principessa prima che tutto sia perduto” detto questo alzò di nuovo le braccia e il ragazzo in pochi secondi si trovò al porto su di una piccola imbarcazione.
Amelia era stata portata in cima alla torre ma non fu facile per i fantocci della strega, era riuscita a liberarsi per poco tempo, corse nelle sue stanze e con una chiave aprì un bauletto dal quale prese un sacchetto di velluto nero che nascose prontamente tra i vestiti appena in tempo, le guardie buttarono giù la porta e la presero per le braccia e la trascinarono a forza verso la prigione.
Damian era al porto e da lontano scorse la figura di colei che amava, in un certo senso credette che anche lei lo avesse visto e avesse ricambiato lo sguardo… per un attimo giurò di aver visto qualcosa luccicare nella sua mano. Aveva poco tempo per accontentare quella pazza che si era presentata a palazzo e non aveva idea di come fare e soprattutto quale direzione prendere: solo una persona avrebbe potuto aiutarlo o almeno consigliarlo in quella strana e assurda situazione.
Corse al santuario e fu accolto immediatamente da tutti i frati preoccupati per le notizie che giungevano dabbasso: “Principe Damian, seguitemi! Abbiamo poco tempo” disse l’abate, lo condusse in biblioteca, chiuse la porta prese un libro e un lume e lo mostrò al ragazzo: “So già tutto ciò che state per narrarmi, la situazione è molto grave e pericolosa e non abbiamo tempo da perdere. La strega dannata vi ha dato un compito e voi dovete assolutamente portarlo a termine! ora dovete sapere che la cassa che la creatura vi ha chiesto di rubare (perché di furto si tratta) è proprietà dell’antico dio pagano del mare Nettuno. Si tratta del suo tesoro più prezioso, un baule non troppo grande interamente intagliato nell’oro zecchino, chiuso con una serratura complicata apribile solo grazie ad una chiave fatta dello stesso materiale. Essa si trova all’interno custodita gelosamente dalla sua progenie, a voi molto vicina; pochi ne conoscono il segreto che la cassa serba gelosamente, ma potrete ben vedere da queste raffigurazioni di cosa si tratta: diamanti, pietre grandi come una mela matura, oggetti che hanno un grande potere.
Sono loro che danno la luce al mare, il riflesso che vedi di giorno e di notte, il calore dell’acqua è merito loro, ma vedi caro ragazzo esse possiedono anche altre capacità: donano immortalità a chi è legato a loro e producono grande ricchezza e prosperità. Furono creati dal dio stesso con il suo tridente … ecco cosa vuole la strega con questo enorme potere lei governerà il mondo finché esso perdurerà”.
“Sì ma come pensate che io possa da solo compiere una tale missione suicida? In ogni caso lei ucciderà Amelia, la sua famiglia e tutti gli abitanti del villaggio! Io non posso avere tutte queste vite sulla mia coscienza e non posso perdere lei…”, l’abate sorrise e posandogli la mano sulla spalla disse: “Mio caro ragazzo, non è tutto, aspetta e vedrai che la risposta arriverà da sola nella tua mente, volta la pagina del libro e dimmi, che cosa vedi? ” Damian inarcò il sopracciglio con aria dubbiosa, cambiò pagina e ciò che vide lo lasciò senza parole.
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 “Esatto caro, proprio così… tu sei un predestinato e quella che vedi è la tua storia: i tuoi genitori erano sovrani qui molti anni fa, erano i primi custodi del tesoro di Nettuno ma la strega sapeva e da sempre ha cercato di rubarlo. Compì le stesse identiche azioni di questa notte, ma in quel caso avrebbe rinunciato se in cambio avesse ottenuto l’amore di tuo padre, lei, infatti, lo bramava più di ogni altra cosa, separò i tuoi genitori uccidendo tua madre; conosci la leggenda dei due promontori? Ecco, quella è la loro storia.
Tuo padre riuscì a sconfiggere la strega e rimandarla indietro ma lei aveva fatto in modo che tu fosti rapito e cosi non avendo più nulla da perdere si tolse la vita decidendo di morire nel promontorio opposto a quello in cui tua madre era sepolta in modo da poterla sempre guardare. Una storia triste ma quando ti vidi ricomparire capii che non fu un caso, sei un predestinato e il tuo compito com’è scritto li è di proteggere il tesoro a costo della tua stessa vita. Devi andare per mare e vedrai che lo stesso Nettuno ti guiderà e quando tornerai, sconfiggerai la strega nell’unico modo possibile ovvero risvegliando il suo antico nemico, il drago che dorme sotto il promontorio a sud-ovest pronunciando queste parole (disse indicando una riga sul libro), versando il contenuto dell’ampolla nella roccia…ma bada bene, devi farlo solo al tuo ritorno non prima, altrimenti il drago non sarà mosso da buone intenzioni”.
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Damian prese con sé con la boccetta contente un liquido trasparente e la mise nella sua sacca, salutò l’abate e andò al porto: prese immediatamente il mare e non appena si allontanò dal regno vide qualcosa che nella sua mente era un pallido ricordo; la luna. In cuor suo capì che doveva seguire la grande strada d’argento creata dal riflesso sull’acqua e ne fu certo non appena apparse un delfino che iniziò a guidarlo verso sud-ovest, dove il sole tramonta e la luna nasce. Il principe sapeva di dover seguire il piccolo cetaceo poiché esso era animale sacro al dio del mare, era il segno che stava aspettando, infatti, l’animale lo condusse verso un promontorio composto per lo più da grotte, una di queste aveva una strana forma come un gigantesco portale a tre archi: uno frontale e due laterali. Il delfino indicò a Damian di entrare, così fece e dopo qualche metro l’acqua cominciò a diventare meno profonda finché non toccò terra, il principe scese e s’incamminò verso l’interno. Dopo pochi metri trovò ciò che stava cercando, prese il baule e tornò immediatamente indietro: il mare aveva mutato la sua forma, era in tempesta ed era opera della strega del nord.
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Erano passati già due giorni, la strega non faceva altro che tormentarla per sapere dove fosse la chiave, la cercava ovunque nel castello ma non era ancora riuscita a trovarla e minacciava di uccidere tutti gli abitanti del villaggio, iniziando con i suoi genitori se non le avesse consegnato la chiave, ma lei non aveva intenzione di cedere aveva il dovere di difendere quel segreto. Sapeva della missione di Damian, doveva raggiungerlo prima che lui tornasse a palazzo e lì su quella torre a picco sul mare, una sola scelta le restava, avrebbe dovuto buttarsi. 
Era in cima alla torre, il vento le scompigliava i lunghi capelli neri, il mare era in tempesta e non c’erano segni del suo arrivo all’orizzonte, aspettava anche solo un segno. Sentiva in lontananza il carillon della strega che non la smetteva di suonare e quell’odioso rumore stava diventando qualcosa d’insopportabile; il rumore secco delle imposte che sbattevano forte per via del vento: si sporse e vide che le onde sbattevano violentemente contro gli scogli, avrebbe dovuto essere veloce nell’allontanarsi evitando il risucchio e la forza motrice che l’avrebbe uccisa sbattendola contro le rocce appuntite, era quasi impossibile ma doveva farcela.
A un certo punto sentì i passi dei soldati-fantoccio della strega salire la piccola scala a chiocciola che portava alla sua cella, non poteva indugiare un minuto di più, strinse la chiave più forte che poté prese la rincorsa e saltò: furono pochi istanti che sembravano eterni, sotto i suoi piedi, il vuoto e poi l’acqua gelida. Il tonfo fu mascherato dal rumore del mare in tempesta, non appena in acqua sentiva il risucchio tirarla giù nuotò verso la superficie ma non appena mise la testa fuori dall’acqua, un’altra onda la buttò nuovamente giù; doveva allontarsi al più presto. Prese un bel respiro andò sott’acqua e nuotò il più velocemente possibile: non era stata una delle sue idee migliori ma era l’unica sensata, quando si trovò ad una buona distanza dalla torre riemerse, ma le onde erano troppo forti e la chiave troppo pesante e d’impiccio, insieme ai vestiti contribuiva solo a tirarla a fondo; stava per rinunciare, sentiva il fiato mancarle sempre di più e le onde erano sempre più forti: stava annegando. Quando tutto sembrava perduto, sentì qualcosa che la spingeva dal basso verso l’alto, era un piccolo delfino bianco, Amelia si aggrappò a lui e l’animale la condusse verso una piccola imbarcazione manovrata da un giovane, appena lo vide la principessa non credette ai suoi occhi: “Damian! Sei tu, sei vivo! Grazie a Dio stai bene” lo abbracciò fortissimo lui ricambiò e la baciò, “Temevo di averti perduta, ti ho vista saltare giù dalla torre, sei stata coraggiosamente folle, stai bene?” Amelia non aveva ancora lasciato la presa; “Si sto bene, grazie al tuo amico, mi ha salvata… hai preso il baule?” Damian fece cennò col capo indicando la cassa sulla barca, “Bene, ecco la chiave, dobbiamo nasconderli prima che lei ci trovi e distruggerla una volta per tutte…” .
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“So esattamente cosa fare ma ora tu devi fidarti di me, devi buttarti in acqua e farti riportare dal delfino a ridosso del castello, le guardie dovranno catturarti…” “Va bene, ma tu cosa farai?” “Io? Sveglierò il drago e vendicherò l’assassinio dei miei genitori” si abbracciarono e baciarono di nuovo poi Amelia si tuffò in acqua e si aggrappò al delfino,  prima di partire lui le disse: “ Cerca di prendere più tempo possibile, fa in modo che la strega si renda invulnerabile…” la giovane annuì “… E Amelia, qualunque cosa accada, sappi che il mio amore per te non avrà mai fine”, il delfino partì e in pochi secondi la giovane fu lontana parecchie miglia.
I fantocci avevano scrutato a lungo il mare dall’alto della torre  e non vedendo la principessa spuntare fuori dall’acqua decisero che era ora di comunicarne la morte alla strega; quando finalmente la videro uno dei soldati chiamò  la strega che comparì dal nulla, alzò come da consuetudine le braccia e sollevò Amelia verso l’alto: “Ci hai provato ragazzina, ma non ce l’hai fatta e ora dimmi dove si trova la chiave o per te finisce qui!”. La strega aveva quei terribili occhi di ghiaccio puntati su di lei, ma Amelia non si perse d’animo e rispose per le rime: “Non l’avrete, non da me, piuttosto la morte” la strega rise, “Non giocare con me ragazzina, hai molto da perdere, a cominciare da quel bel giovane che tanto ti ama” “Non vi dirò mai dove ho messo la chiave, siete arrivata troppo tardi ormai, e non la troverete più!” “Stai mettendo a dura prova la mia pazienza… per l’ultima volta DOV’ E’ LA MIA CHIAVE! “La chiave NON è roba vostra, non so dove sia l’ho persa quando sono caduta!”  la strega ormai aveva perso le staffe stava per scaraventarla lontano quando uno dei fantocci gridò: “Maestà guardate li!” il dito era puntato all’orizzonte, verso una strana macchia che si muoveva velocemente nella loro direzione, inizialmente la strega non capì di cosa si trattasse, guardò meglio e ciò che vide la spaventò a morte era Damian in piedi con la spada sguainata sopra il dorso di un enorme drago nero; non appena la donna capì il pericolo scaraventò Amelia verso il basso sugli scogli aguzzi e urlò “Maledizione! Presto prendete le armi o per voi è la fine”.
Damian saltò giù dalla bestia e si scontrò con le guardie isolando la strega, il drago evocato dal principe si era nascosto e la donna palesemente preoccupata lo cercava disperatamente, ma la bestia la colpì alle spalle e lei tentando inutilmente di fronteggiarlo inciampò precipitando dalla torre: il drago senza perdere un attimo volò dietro di lei afferrandola e tranciandole la testa con un solo morso, mentre il resto del corpo precipitava nel vuoto, non appena toccò la superficie dell’acqua si tramutò in polvere.
In pochi attimi la tempesta si placò e il sole tornò a splendere, il drago riprese a far parte del promontorio e i fantocci tornarono ad essere le guardie del re inchinandosi alla vista del principe in segno di gratitudine per aver avuto salva la vita, ma Damian si accorse immediatamente che non tutto era finito per il meglio, si sporse dal parapetto della torre e ora che il mare era tornato ad essere calmo la vide subito: Amelia era li, sdraiata supina sugli scogli, un rivolo di sangue dietro la testa e i meravigliosi occhi verdi sbarrati lo fissavano privi di vita; era morta.
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Quando il re e la regina si risvegliarono dall’incantesimo si congratularono con il loro eroe, ma ne ebbero il cuore spezzato quando vennero a conoscenza della tragica sorte della loro unica figlia, l’intero regno era a lutto e tutti si presentarono a prestarle un ultimo saluto al santuario.
Damian era distrutto, aveva perso la donna della sua vita e avrebbe dato qualsiasi cosa pur di riaverla indietro; la notte prima del funerale si era fermato più a lungo accanto alla salma di Amelia, aveva bisogno di tutto il tempo possibile prima di vedere il suo corpo abbandonato alla deriva su una barca infuocata (come da tradizione). Solo nella cappella sentì dei passi avvicinarsi, era il suo mentore, l’abate: “Figliolo, vederti così mi si spezza il cuore… e non posso tenere il segreto ultimo delle gemme che tu hai eroicamente protetto. Devi sapere che esse donano l’immortalità a chi le possiede” Damian lo guardò con gli occhi rossi e gonfi di lacrime e rispose quasi urlando “Quale immortalità?! Ormai è morta, non può diventare immortale” il vecchio sospirò “ Pazienta ancora un momento figliolo, si donano l’immortalità a chi è in vita, ma possono riportare indietro un’anima dall’aldilà se essa è destinata a tornare, se la sua morte è stata una tragica fatalità del destino dovuto a cause superiori, la giovane Amelia si è sacrificata per un bene più alto e io credo che lei abbia una possibilità di tornare indietro se lo vorrà ovviamente..” gli azzurri occhi di Damian si illuminarono di colpo, “Vi prego ditemi cosa devo fare!” “Oh è semplicissimo, ecco prendete questo e mettetelo sul suo cuore e parlatele, ricordatele del vostro amore per lei e una volta finito alle prime luci dell’alba baciatela e se il destino è a vostro favore la vostra amata rammenterà e tornerà da voi” l’abate porse a Damian un diamante di Nettuno e se ne andò, una volta rimasto solo il principe fece ciò che gli era stato detto, pose il diamante sul petto di Amelia e le prese una mano e iniziò a parlarle: “Eravamo bambini ricordi? Ma io già sapevo che saresti stata parte di me, dal primo momento in cui ti ho vista. Ogni volta che affrontavo una prova o attraversavo un momento importante tu eri li, non scorderò mai quella sera, durante quella festa giù al villaggio ti ho vista mentre ballavi saltellando e girando da una parte all’altra della piazza insieme alle altre fanciulle. Il tuo sorriso, il suono della tua risata, sei tu il mio diamante, la chiave per l’immortalità della mia anima.. perciò ti prego Amelia, torna da me, non abbandonare questo povero marinaio, non lasciarlo alla deriva senza la luce del suo faro a guidarlo” le lacrime gli scendevano a fiumi dagli occhi e non appena finì il suo discorso vide entrare dalla finestra un raggio di sole, si avvicinava sempre di più, stava albeggiando finalmente: il raggio di sole invase il corpo della principessa e dal diamante si sprigionò una luce fortissima, Damian baciò le gelide labbra della sua amata, bagnandole il viso con le sue lacrime, a poco a poco sentì che non erano più tanto gelide, ma diventavano sempre più tiepide e poi calde: le guance ripresero colore, il cuore cominciò a battere e il petto a muoversi, stava respirando! Piano piano aprì gli occhi e si voltò verso il suo amato: “Sapevo che mi avresti salvata” si tirò su e lo abbracciò con tutte le sue forze “Non hai idea di quanto tu mi sia mancato, d’ora in poi non ti lascerò mai più” .

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Quando il re e la regina arrivarono e videro quella scena non credettero ai loro occhi ma la gioia travolse entrambi e abbracciarono la loro bambina: il villaggio cambiò in poche ore i preparativi per un funerale a quelli di matrimonio, il re infatti nonostante le nozze fossero già state celebrate voleva che si tenessero nuovamente in sua presenza e con i migliori festeggiamenti: fu una festa imponente fatta di fuochi d’artificio, banchetti, musica, giochi .
il re fece costruire in onore della coppia una meravigliosa fontana che partiva proprio dal santuario e scendeva (scendendo)a cascata fino al mare, meta di visitatori era attivata nelle occasioni speciali (c’è chi giura di aver visto sgretolata sulle rocce polvere estratta dal diamante che ha salvato la principessa, ma è mera leggenda): il segreto di Nettuno fu mantenuto e col tempo nessuno conosceva la differenza tra realtà e mito, certo è che quella storia fu tramandata per secoli di nonno in nipote, ma più dei diamanti c’è chi ancora fantastica sull’amore travolgente dei due giovani in grado di sconfiggere persino la morte.

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FINE


ALESSANDRA ROCCHI
@La_Rocchi

domenica 4 agosto 2013

Persone a me vicine dicono che dovrei starti alla larga perché sarai soltanto l’ennesima delusione e tutto ciò che potrai darmi, sarà soltanto dolore. Può darsi che abbiano ragione, ma loro non sanno che ormai il mio povero cuore è insensibile, ed è preparato al peggio poiché è ciò che ha già conosciuto.
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Occasioni?
Quante ne vuoi, te ne vengono sottoposte miliardi
ogni secondo
di ogni minuto
di ogni ora
di ogni singolo giorno…
Molte volte sei proprio tu a chiederle, per poi dimenticartene quando queste ti sono proposte.
Sta a te saperle cogliere ed essere sempre preparato
(al tuo meglio)
Persone a me vicine dicono che dovrei starti alla larga perché sarai soltanto l’ennesima delusione e tutto ciò che potrai darmi, sarà soltanto dolore. Può darsi che abbiano ragione, ma loro non sanno che ormai il mio povero cuore è insensibile, ed è preparato al peggio poiché è ciò che ha già conosciuto.
Non si tratta di una scorta inesauribile.

lunedì 29 luglio 2013

un vuoto nell'anima

UN VUOTO NELL’ANIMA

La mia vita che io ricordi è sempre stata un incubo: fino ai sedici anni non ho mai avuto veri amici, sempre sola e triste, così depressa che tentai anche di uccidermi.
A scuola ero vista come una povera bruttina con gli occhiali fissata con i voti, una dalla quale copiare i compiti e non da invitare da nessuna parte.
Mi sono mancati quegli amici, i pomeriggi al sole pieni di gioia e sorrisi: ero felice quando pioveva perché la pioggia e l'oscurità rispecchiavano ciò che c'era nel mio cuore. Dopo ogni giornata di scuola versavo lacrime amare, stanca di subire le peggiori angherie; ridacchiavano, bisbigliavano, ripetevano in tono derisorio le domande che ponevo ai professori o ciò che commentavo durante le lezioni. Non sono mai riuscita a capire la mia unica colpa, in fondo volevo solo andare bene a scuola! I miei genitori? Non so se fossero morti o mi avessero abbandonata. Ho sempre vissuto con una coppia, forse zii, non erano molto presenti: lei lavorava moltissimo e lui non era mai a casa, e quando tornava, spesso a notte fonda, puzzava di alcool. Non erano dei gran genitori, divorziarono quando io avevo circa sedici anni.
Non potendo più badare a me, la zia mi affidò ai servizi sociali e il tribunale decise di mandarmi in una famiglia dall'altra parte della nazione, e cosi dallo squallido quartiere di periferia traslocai nel New England presso una famiglia benestante e altolocata, i Jackson.
Ero felice, stavo per iniziare una nuova vita. L'assistente sociale mi aveva detto che mi sarei trovata bene e che la famiglia che mi avrebbe accolta non vedeva l'ora di conoscermi, avevano già due figlie: Jane mia coetanea e Maggie.
I signori Jackson erano gentili (cosa che non si poteva dire di Jane che rendeva ogni giorno la mia vita un’ inferno), ma io però ero diffidente, non abituata a tutte quelle attenzioni.
Il mio compleanno si avvicinava ed i Jackson decisero di organizzare una festa a sorpresa alla quale invitarono un po' di ragazzi e ragazze della scuola, sperando che io facessi amicizia, ma qualcosa andò storto: Jane sabotò la festa dicendomelo prima ed evitando che si presentassero gli invitati. Non davo peso ai suoi tiri mancini, ero contenta perché avrei finalmente conosciuto Maggie, la maggiore. Sarete sorpresi nel sapere che invitai anche io una persona alla festa, una ragazza che conobbi in un bar, era bellissima: alta, snella capelli scuri e occhi verdi, la dolcezza e la comprensione fatta a persona. Ci conoscemmo per caso in coda alla caffetteria dietro casa dove ero solita andare: chiacchieravamo tanto e le raccontai la mia vita a San Francisco e le mie speranze di un nuovo inizio distrutte dalla mia sorellastra. Lei mi capiva, sapeva cosa volesse dire impegnarsi negli studi ed essere derisa per questo: era la prima del suo corso, capo del comitato studentesco al college e aveva vinto numerosi premi scientifici sapeva esattamente come mi sentivo, per anni non aveva mai avuto amici, per quanto fosse circondata da persone era comunque sola al liceo.
La mattina del mio compleanno arrivò, mi svegliai, mi guardai allo specchio e mi dissi come ogni anno "beh un anno in più e non sono cambiata di una virgola" mi vestii, salutai la signora Jackson presa dalle pulizie e uscii. Era una bella giornata, il sole splendeva alto nel cielo ed io avevo un appuntamento al parco con Maggie ma lei non si presentò, l'aspettai un paio d'ore ma non la vidi arrivare, delusa me ne tornai a casa. Quando arrivai trovai tutte le luci spente, tempo di chiudere la porta accendere la luce e fui travolta da un coro di SORPRESA, rimasi a bocca aperta non tanto dalla festa ma nel notare che la figlia maggiore dei Jackson altro non era la ragazza con cui avevo passato gli ultimi giorni, l’amica che avevo invitato. Felice della mia sorpresa mi godetti la festa e Maggie fece di tutto per far si che mi rappacificassi con Jane e ci riuscì; fermandosi più del previsto perse il treno e il signor Jackson le disse di prendere la macchina. Era scoppiato un brutto temporale e quattro ore dopo la sua partenza Maggie ancora non aveva chiamato. Il signor Jackson accese la TV e sul canale regionale c'era la notizia di un grave incidente che aveva bloccato la statale est in direzione del college, dalle immagini i Jackson sembrarono riconoscere la loro macchina accartocciata... presi dall'angoscia presero il telefono per chiamare la polizia, ma non appena iniziò squillare qualcuno suonò il campanello...Ho ricordi molto confusi di quella sera e di ciò che avvenne dopo: la signora Jackson fu colta da un malore improvviso e fu ricoverata in ospedale, Jane diventò ancora più spietata nei miei confronti incolpandomi della morte di Maggie, il signor Jackson scelse il silenzio e l'alcool.
Non so cosa mi spinse a farlo: forse la disperazione della mia solitudine, l'aver perso l'unica amica che avevo, l'affetto dei genitori che non avevo mai provato prima, tentai più volte di evitare quella sensazione di essere stata IO la causa di tutti quei mali, il dolore, la morte... Alla fine cedetti al tormento e un mese dopo, in una notte di pioggia come ce ne sono tante, mi chiusi in bagno e tentai di uccidermi, non chiedetemi dettagli è troppo doloroso.
Non so bene cosa accadde dopo ma volevo a tutti i costi lasciarmi andare, la mia vita non aveva mai avuto un senso, avevo solo sofferto e causato sofferenza, altrimenti perché tutto il mondo mi odiava cosi tanto? Vedevo un via vai di persone intorno al mio letto, piangevano, leggevano, parlavano con me; persino Jane sembrava realmente afflitta! Non avevo intenzione di restare volevo andarmene per sempre, d’altronde ero sempre stata invisibile una donna senza volto e il resto del mondo non mi prestava alcuna attenzione…Una notte però accadde qualcosa di strano: sognai Maggie. Era venuta da me, bellissima come sempre, camminava e venendomi incontro mi disse di stare bene, che ora la sua famiglia aveva bisogno di me, che io avrei dovuto occuparmi di loro e della loro felicità. Mi baciò, abbracciò e svanì.
La mattina dopo mi risvegliai e iniziai a riprendermi. Qualche settimana e fui dimessa.
Maggie cambiò la mia vita, fu un'amica, una confidente, una sorella. In così poco tempo mi diede tanto, diventai adulta imparando ad essere me stessa senza vergognarmi e senza paura.



Tutto ciò che chiedo è incontrare qualcuno che non conosca obbligo nello starmi accanto, che abbia voglia di vedermi anche solo per un'ora ma che sia spesa bene.
Qualcuno con cui condividere le cose più semplici lasciando da parte superfluo e la pomposità: stare sdraiati in un letto, sotto le stelle o semplicemente prendere un caffè.
Qualcuno che condivida il silenzio e il rumore, che riempia il vuoto che ho dentro solo con la sua presenza.
Ho bisogno di qualcuno che scelga di stare con me indipendentemente dalle etichette, perché quelle non sono una garanzia come la volontà di stare l'uno nell'altra indipendentemente da ciò che accade nel mondo esterno.
Ho bisogno di qualcuno che sappia di essere libero ed essendolo scelga comunque la mia compagnia senza che sia io a chiederlo.



Recitiamo tutti un copione, chi più chi meno, ma solo in pochi sanno interpretare la verità di un gesto, un sorriso o un'espressione.
Fai una fatica mostruosa per prendere quella decisione che ti porta ad abbattere tutte le barriere che ti sei creato ogniqualvolta la vita ti ha tirato un colpo basso: orgoglio, paura, ansia... Ti accorgi che sono solo parole e cosi le ignori, prendi un bel respiro e agisci finché non si ripresenta il solito problema un messaggio per quanto dolce, simpatico, carino rimane una lettera in una bottiglia abbandonato alla deriva senza esser mai ricevuto dal destinatario.
La mia testa è un vortice, un torrente in piena di pensieri che fluiscono a tutta velocità. 
Al centro di tutto questo ci sei tu insieme al profumo sul tuo collo morbido, alle tue labbra, ai tuoi occhi ed alle tue braccia che mi stringono forte. 
Da quando sono entrata nelle rapide ho perso ogni controllo e in tua presenza diventa sempre più difficile mantenerlo. 
Vorrei solo abbandonare i remi e lasciarmi trasportare nella corrente ma la paura di affogare è troppa.
Che poi alla fine, tutto quello che desidero è prenderti e contro un muro e baciarti, lasciarmi baciare e sentire le tue mani calde sulla mia pelle e rivivere quella sensazione che solo tu sei in grado di darmi.
Eri quella cosa che stavo aspettando
la scossa di cui avevo bisogno
per allontanarmi 
da quel buco nero che mi risucchiava 
eppure come tutte le scariche 
sei passato in pochi secondi come in un sogno
ho visto la tua ombra mentre si allontanava 
forse il tuo scopo era quello, 
tirarmi su 
per poi lasciarmi giù
con mille domande
che non avranno mai risposta.



A volte ho come la sensazione di aver perso il treno, non una sola volta, ma una, due, tre.... infinite volte in cui sono rimasta immobile sulla banchina perché arrivata sul fischio del capotreno non mi restava altro che vedere la carrozza in movimento mentre si allontanava verso l'orizzonte e la paura di saltare era troppa.


Sento ancora il tuo profumo intorno a me... 
non mi stanca mai, mi riempe il cuore.

Vorrei sentirlo più spesso
e sentire te 
stringendoti forte 
senza lasciarti mai andare.


Potevo restare ore a guardarti dormire: il tuo viso rilassato in un meraviglioso sorriso di un riposo profondo, come se nessuno potesse toccarti.

Ti addormentasti tra le mie braccia con la mia mano che accarezzava i tuoi capelli e le mie labbra che sfioravano il tuo viso.

Mi sentivo al sicuro accanto a te, una sensazione che non provavo da tanto tempo.

Sarei rimasta in quel letto per sempre, con te, lontani dal mondo che ci circondava e da occhi indiscreti: soli ma insieme. 

Ma evidentemente la sveglia non aveva gli stessi progetti.


Avrei potuto innamorarmi di quel sorriso, 
di quello sguardo carico di attenzione,
di quegli occhi piccoli ma del tipo che scavano anche il lato più profondo e oscuro dell'anima.

Sentivo che mai avrei potuto stancarmi di quell'abbraccio forte; 
di quelli che non provavo da tanto. 
Di quei baci appassionati che scatenavano brividi in tutto il mio corpo. 
Avrei potuto e tutt'ora potrei ma effettivamente eviterei.



Cosa sono il mio e il tuo? Concetti sopravvalutati quando ci si riferisce al legame tra due persone: se si parla di possesso non si parla di sentimenti.
Quando due persone sono attratte l'una dall'altra non hanno bisogno di un'etichetta per definirsi una cosa sol
a; lo sono perchè vogliono esserlo, si appartengono ad un livello che va ben oltre la fisicità. 
Ci sono tante coppie che per una questione di etichetta si definiscono un'unica cosa, ma è soltanto una questione di apparenza perchè, nei fatti, cercano altrove ciò che nell'altro non possono trovare.
Nella realtà delle cose due persone che si attraggono e vogliono stare insieme non hanno bisogno null'altro che di loro stessi e restano uniti senza il bisogno della colla nel marchio sociale che li identifichi agli occhi del mondo.
Se c'è un obbligo non c'è libertà, se non c'è libertà non ci può essere spontaneità e se non c'è la spontaneità come possiamo considerarci felici?
E' questa una delle tante sfaccettature dell'amore, forse quella più pura e semplice, un'utopia che si nutre solo di passione e sentimento che crea legami indissolubili nel tempo e nello spazio.



Mi togli il fiato ogni volta che mi guardi, 
ogni volta che i tuoi occhi incontrano i miei o 
quando le nostre mani si sfiorano.

Io di nascosto ti lascio entrare fingendo di guardare dall'altra parte, 
mi attrai più di quanto ti lasci credere:

sei come una calamita.

Ma la verità è che la distanza è l'unica cosa concreta che potrà esserci tra noi.


E' per quel modo che hai di guardarmi, come a voler indagare il mio viso per carpirne ogni segreto: ciò che è celato dietro ogni singola espressione, velato dai miei mille sorrisi. 

Vuoi conoscere i miei pensieri più nascosti ma non riesci e cosi resti confuso nella tua inconsapevolezza.

Eppure devi sapere che è quel tuo sguardo indagatore a confondere me, sento come un vuoto sotto i miei piedi ogni volta che ti vedo osservarmi da lontano e ciò che ti crea dubbi è solo una profonda timidezza impossibile da esprimere. 
Sono come un agnello indifeso di fronte al lupo; il mio viso è come il velo di Maya, devi solo avere il coraggio di sollevarlo per conoscerne il segreto.



Ogni volta che i miei occhi incontrano i tuoi vedo la stessa ardente passione che scuote il mio animo, frenata da mille dubbi e paure.
A volte devi solo smettere di preoccuparti, tirare un bel sospiro e fare un passo avanti, uno alla volta finché non raggiungi la fonte del tuo desiderio o semplicemente per vivere una vita senza ansia e paura.

Un incontro

"UN INCONTRO"

Marcai il labbro superiore, seguendo i contorni dell’arco di Cupido e scendendo verso l’incavo con il labbro inferiore. Corressi le sbavature con un fazzoletto di carta, inumidito dalla mia saliva e guardai la mia immagine riflessa nello specchio di fronte. Con le labbra carnose che mi ritrovavo, di certo non potevo passare inosservata: anzi, se piegavo il volto ed arricciavo la bocca, potevo addirittura rasentare l’eccessivo. Avevo optato per un vestito nero, classico, formale ed informale allo stesso tempo, con un scollo a “v” sul petto e niente spacchi sui lati. Grazie alla luce calda dell’abat-jour, dall’immagine che avevo di fronte, trapelava una certa sensualità che, aiutata dal rossetto, restava camuffata, tuttavia, dall’artificiosità dell’abito.
Rimasi incollata di fronte allo specchio per un buon quarto d’ora, cercando di far scivolare al meglio il tessuto sui fianchi ed aggiustando i dettagli. Nel tentativo di chiudere la zip lungo la schiena, l’occhio mi cadde su una piccola scatola in legno, sopra il bourot, un piccolo scrigno che avevo racimolato fra i vecchi mobili della nonna.
Quando avevo comprato quel monolocale, nell’hinterland di Torino, ero rimasta talmente delusa dei suppellettili con i quali i precedenti locatari avevano arredato l’ambiente che, ero stata costretta a cambiare tutto. Perlustrando la vecchia casa di mia nonna, avevo trovato qualche mobile degli anni Trenta, fatto restaurare a dovere da mio padre e me ne ero appropriata senza troppe scuse. In effetti, l’appartamento appariva tutto fuorché moderno, ma col tempo avevo finito per abituarmici. Ora, quel piccolo scrigno, ornato di velluto rosso, aveva catturato la mia attenzione. Aprendolo vi trovai, fra le altre cianfrusaglie, anche una piccola fede in oro, sicuramente risalente alla notte dei tempi, tramandata di madre in figlia per chissà quanto tempo. Per almeno una decina di volte mi chiesi se era il caso di metterla. Insomma, stavo andando a cena con il mio ex, e già questo sarebbe bastato per classificare la serata fra le cose senza senso. Per di più, avevo indossato un abito strettamente formale, che mettevo di rado ed un rossetto praticamente vergine. No, forse non era esattamente il momento migliore per sfoggiare tale brilluccichio in onore e ricordo dei miei avi. Riposi l’anello nello scrigno e ritirai gli abiti che avevo provato prima di scegliere quello che indossavo, malamente gettati sul letto, diedi ordine alle lenzuola ed uscii di casa, arrancando il cappotto all’entrata.
Non che fossi particolarmente soddisfatta dell’ubicazione di quel monolocale, devo ammetterlo; oltre alla vicinanza col Po’, non riuscivo ad intravedere aspetti positivi, malgrado gli sforzi. Il condominio risaliva agli anni Venti ed aveva muri talmente spessi che non li avrebbe distrutti neppure un ordigno nucleare. E la cosa più spiacevole era che, nelle giornate d’inverno, trattenevano gelo ed umidità come carta assorbente. Attraversai il corso, dirigendomi verso il fiume e m’incamminai verso la piazza centrale. Il buio era sceso già da un pezzo, nascondendo le imperfezioni dei volti e camuffando le chiazze di smog che si estendevano a macchia di leopardo sulle pareti degli edifici, inconfutabile segno di una città schiava del traffico.
L’unica nota positiva, trapelava dallo scroscio dell’acqua che, con velocità disarmante, sbatteva sugli argini e procedeva verso la pianura. C’era un’altra città, nel fiume. La città fatta di ombre e di luci che si riflettevano ballerine tra le onde; una città silenziosa, più pulita, nella quale potevi immergerti facendo canottaggio o su uno dei tanti battelli attraccati al Valentino. Non sempre, ovviamente. Nei mesi invernali tutto era statico, fermo, in attesa della rinascita e del rifiorire della natura e dei turisti. Io, nell’acqua, mi ci perdevo ogni giorno, anche senza avere il culo adagiato su una canoa. Ma questa è un’altra storia.
A cena con l’ex. Non so perché, ma mi sapeva tanto di “Cena con delitto”, una di quelle serate organizzate dall’agenzia dove, nel bel mezzo della cena e puntualmente quando stavi gustandoti il piatto forte della casa, ti trovavi a dover risolvere un caso ed analizzare gli indizi come un vero detective. Interessante, non c’è dubbio, ma sicuramente non come un piatto di cannelloni ripieni di ragù o una pallina di profitterol. Anzi, la cena con delitto, era sicuramente il modo migliore per provocare un indigestione ai commensali: dovevo tenerne conto quando invitavo a cena qualcuno che mi stava sulle palle.
A mano a mano che mi avvicinavo al ristorante, l’ansia cresceva e l’aria diventava stranamente irrespirabile. Mi accesi una sigaretta e rimasi a guardare il fiume per qualche istante, cercando di rilassarmi. Sentivo la gente passarmi alle spalle, il ticchettio delle loro scarpe e la scia del loro profumo: fragranze fruttate si mischiavano a sentori di sandalo, pino silvestre, lavanda. Per un momento pensai di seguirli, arrotolandomi tra le essenze, di modo che i miei abiti ne assorbissero un po’; poi mi resi conto di quanto sarebbe stato ridicolo e privo di senso, quel comportamento, e quindi desistetti: certe scene sono concesse solo nei film, in effetti.
Lasciai che la sigaretta arrivasse fino al filtro, prima di spegnerla sul marmo del parapetto: dovevo essere sicura di aver assorbito tutto il necessario, per procedere.
Mi diressi verso il ristorante senza pensare. A dire la verità non era un vero e proprio ristorante. Non ci vedevamo da mesi e l'idea di ritrovarmi in uno spazio chiuso, schiacciata dall'odore aspro della cucina mixato confusamente con i profumi fruttati dei commensali, mi faceva sentire ancora più a disagio. Avevo optato per un piccolo locale, in centro, incastonato tra gli antichi edifici della stazione. Serviva aperitivi per la modica cifra di 8 euro: un bicchiere di vino ed una bidonata di antipasti e stucchini da riempire lo stomaco di un rinoceronte. Non che Ale si abbuffasse; in effetti non era proprio il tipo delle grandi mangiate, ma non potevo sapere se, col passare del tempo le sue abitudini fossero cambiate. Di sicuro, il fatto che il locale disponesse di un ampio spazio dehor, con tavolini e sedie opportunamente equidistanti tra di loro, aveva fatto il suo. Così avrei potuto trascorrere un'oretta senza incappare nell'intimità di una cena fuoriluogo e sarebbe stato qualcosa di leggero. Tutti i giovani si ritrovano per l'aperitivo, no? Vagonate di ragazzi si riversavano per le vie del centro tutte le santissime sere dalle 18.00 in poi, saltellando da un locale all'altro, alla ricerca del prezzo migliore o dello stuzzichino più invitante.
Il locale era abbastanza buio e devo ammettere che rimasi di sasso quando intravidi delle piccole candele bianco panna sparse qua e là, tra un piatto e l'altro. No, non bene. Non volevo rischiare che Ale pensasse ad un invito romantico o, peggio ancora, alla mia malsana voglia di sedurlo che, giuro, era riposta all'ultimo gradino nella scala delle cose da fare oggi. Uscii sul marciapiede e, fortunatamente, riuscii a trovare un tavolino in vimini, sistemato tra foglie di bambù finte. In effetti anche il bambù ed il vimini avevano un nonsoché di selvaggio ed avrebbero potuto essere un contorno ideale per una femme fatale e la sua preda, ma speravo che Ale non facesse viaggiare la mente così tanto da incappare in un pensiero simile.
Rimasi ferma, dinanzi alla porta del locale per un bel quarto d'ora prima di vedere il suo volto intagliarsi tra la folla. Non ero particolarmente a disagio, era come se vedessi un mio vecchio amico. Indossava un maglione nero, il colore che usava più di frequente. Doveva essersi fatto la barba da qualche giorno, dato che piccoli spuntoni scuri facevano capolino dal mento e dalle guance rosee. Aveva le spalle larghe, infatti le maniche delle maglie continuavano ad arrivargli poco sopra i polsi, malgrado gli avessi detto più volte che una “L”, sì, sarebbe stata un po’ morbida sul petto, ma alla fine avrebbe risolto il problema degli avambracci nudi. Evidentemente non aveva donne o, se le aveva, non si preoccupavano di puntualizzare il particolare.
Avanzava lento tra la folla stanziata sotto i portici, o forse ero io a vederlo in versione ralenti come in quelle pubblicità di profumi maschili in bianco e nero. Nella mia mente si accavallavano mille pensieri: cosa penserà, cosa mi dirà ma soprattutto perché accidenti sono qui? Non potevo restarmene a casa come ogni sera a guardarmi uno stupido programma televisivo? Il solo riconoscere la sua fisionomia nella confusione aveva scatenato in me tutta quella serie di emozioni che si provano non all’incontro con un ex o con un amico bensì al primo appuntamento con un perfetto estraneo… senza nemmeno pensarci aprii la borsetta ed estrassi uno specchietto portatile e controllai che il mio viso fosse in ordine: “perfetta” pensai e subito dopo “ma sei impazzita?!” il mio cuore batteva all’impazzata, ogni frazione di secondo aumentava la sua velocità; il respiro si faceva sempre più corto man mano che lui si avvicinava, infine eccolo li di fronte a me il suo bel viso, i lineamenti perfetti, quegli occhi meravigliosi che sembravano zaffiri incastonati nel suo volto e infine il suo sguardo accattivante e scrutatore.. mi abbracciò e in quell’istante il mio cuore si fermò.
Cosa diamine mi stava succedendo? Mi sentivo un’adolescente al primo appuntamento, eppure il nostro coinvolgimento sentimentale era chiuso da tempo: ci sedemmo e in quel momento guardando dall’altra parte della piazza notai qualcosa che fece riaffiorare alla mente il ricordo del nostro incontro e per qualche istante fui assente, trasportata in un altro luogo lontano nel tempo.
Un locale come tanti in quella piazza, la più grande d’Europa, lo guardavo distrattamente ma il trasporto del ricordo era forte; tutto tornò alla mente…
Ero così tesa, arrivai all’appuntamento con largo anticipo: era il 16 maggio 2010 (e chi se la scorda quella data, rimasta impressa nella mia mente come fosse stata incisa su una pietra), le giornate si erano allungate e cominciava ad esserci quel lieve tepore tardo primaverile creato da un primo sole caldo che scalda il cuore dopo un inverno lungo e gelido.
L’attendevo ma allo stesso tempo avevo una gran voglia di scappare a gambe levate, era da tanto che non uscivo con qualcuno e le mie ultime esperienze erano state con soggetti di dubbia moralità che avevano fatto più male che bene, per questo ero stata titubante nei suoi confronti ma nessuno mi vietava di dargli una possibilità. Feci di tutto per arrivare in ritardo ma a quanto pare quel blando tentativo fu vano dato che mi avvisò di esserlo anche lui e cosi fui la prima a presentarmi in piazza. Mi sedetti su una panchina dall’altro lato della strada di fronte al locale, “Hey soul sister” dei Train nelle orecchie, mi guardavo intorno: la piazza all’imbrunire toglieva il fiato: gli archi riflettevano il rosato del tramonto e si vedeva venere fare capolino nel cielo accanto alla luna; le persone che passeggiavano sotto i portici diventavano ombre in lontananza, i bambini correvano da una parte all’altra festosi o genitori poco distanti chiacchieravano, dietro di me dai dehors dei locali pieni di clienti intenti a fare aperitivo sentivo chiacchierare… tutto questo era bellissimo, era la piazza che stava riprendendo vita in vista dell’estate.
Mi ero seduta lontano dal locale, speravo di vederlo arrivare così da sapere da quale lato avvicinarmi: in cuor mio volevo stupirlo, magari stregarlo con lo sguardo magnetico e con una camminata trionfale, ad un certo punto lo vidi passare mi alzai per andare verso di lui e beh non fu tanto gloriosa la mia entrata dato che inciampai in una mattonella fuori posto… lui rise e anche io, mi baciò sulla guancia, mi prese sotto braccio e mi accompagnò dentro. Restammo un po’ li a parlare e lui tentava dei contatti fisici, ma io mi irrigidivo il panico mi stava invadendo sempre più, pagò il conto e andammo a fare un giro: salimmo per la collina passando dalla panoramica, una vista meravigliosa.. io tremavo come una foglia e non capivo bene il perché, lui, notando quel mio stato di angoscia si fermò e mi abbracciò: un abbraccio caldo, morbido, profumato Jean Paul Gautier pour homme; mi strinse forte a se e mi baciò la fronte come si fa con i bambini piccoli quando sono spaventati e io mi sentii a casa alzai la testa e lo baciai…

I ricordi si affievolirono in un baleno, lasciando spazio al caos della sera, quello in cui ti trovi immersa per caso, passeggiando sotto i portici, quello che ti rimbomba nella testa fino a casa e continua tra le lenzuola, mentre cerchi di dormire.
Provai a riprendere le redini della situazione e lo invitai ad entrare nel locale. Avevo voglia di abbracciarlo, ma non so perché, la paura di essere fuori luogo frenava ogni mio tentativo di avvicinamento. C'erano così tante cose che volevo raccontagli, talmente tante che, in quel momento non mi veniva in mente nulla: tutto era impilato nella memoria come un cumulo di pacchi postali, mai spediti e che, forse, sarebbero rimasti lì ancora per molto tempo.
Mi sedetti su uno sgabello, cercando di non cadere e riempii il piatto di pietanze. Quando si avvicinò per prendere una manciata di salatini, un'ondata di profumo m'invase le narici, atterrando completamente i miei sensi (lo stesso di due anni prima, lo stesso di sempre).
Avrei voluto chiedergli se c'era una donna o, meglio, se si era innamorato, ma non sapevo se, in ogni caso, mi avrebbe detto la verità.
Dopo aver parlato del lavoro, della famiglia, delle prospettive di vita rimaste inabissate dalla routine di ogni giorno, uscimmo a fumare una sigaretta, la solita che ci concedevamo quando avevamo mangiato troppo e volevamo prenderci un momento di pausa.
Porgendogli l'accendino, le nostre dita si sfiorarono, dando vita ad una scossa che mi percorse l'intero organismo. In quel momento, ci guardammo, con gli stessi occhi di sempre, quelli che rimangono fissi gli uni negli altri e che penetrano nelle viscere del corpo come lame taglienti. In quell'attimo ci fu l'universo, credo, il tutto. Come se tutto diventasse inamovibile e dentro un contatto ci fosse tutto ciò di cui si ha davvero bisogno. Solo che questi attimi durano quanto una lancetta che si sposta da un numero all'altro. E poi puf!, se ne vanno come sono venuti, schiacciati dalle chiacchiere dei passanti.

La serata sembrava giunta al termine, in quel momento, il tutto era diventato nulla, era la fine; dopo mesi di silenzio, l’attesa estenuante stava finendo cosi?! Guardai nei suoi occhi cercando un segno di un sentimento simile, come l’appello silenzioso del condannato a morte sul patibolo e poi lo vidi in un angolo nascosto dei suoi pensieri la stessa sensazione che mi tormentava la stava provando anche lui “Ti prego non andare via è troppo presto..” lo abbracciai, lui mi abbracciò e rimanemmo li circondati dal caos della città e per un momento che sembrò durare un’eternità eravamo solo noi due il resto era solo rumore.

ale&vale